mercoledì 7 settembre 2016

Verso l'Estinzione


Qual'è il senso del porre una domanda provocatoria?
Qual'è il senso del porla, tra individui adulti e pienamente in grado di intendere e volere?
Qual'è il senso del farlo, se uno conosce anche la realtà dei fatti e situazioni, il momento storico in cui viviamo, e con la propria domanda volutamente li ignora?
Dal Devoto-Oli, provocare: "1. Eccitare o irritare spingendo a una reazione violenta 2. Causare, determinare". Dal dizionario dei sinonimi e contrari, sinonimi: "irritare, punzecchiare, pungolare, sfidare, stuzzicare, offendere".
Che cosa si aggiunge a una qualsiasi relazione con una domanda provocatoria? Qual'è il suo valore aggiunto?
Irritare il nostro interlocutore spingendolo a una reazione violenta (che può essere anche la fuga dall'interloquire) non è un modo di essere disposti al dialogo. Si vuole appunto indispettire l'interlocutore stesso e, dunque, non avere (più) alcun rapporto con esso. Questa o è stupidità oppure, ed è peggio, è guerriglia: perché se non avevamo da prima intenzione di interloquire serenamente con esso, perché ci siamo avviati a farlo? Solo per indisporlo? Beh, se fosse, allora sarebbe pura malevolenza, cioè volere che l'altro/a stia male. Insomma, non proprio il più nobile dei sentimenti.
Se abbiamo da segnalare qualcosa a qualcuno, non è più opportuno essere chiari e diretti? Non è il modo migliore per fargli (o farle) capire le cose, e quindi fargli del bene?

Ieri sera abbiamo visto Racing Extinction, un film-documentario di recente fattura che ci dimostra, ancora una volta, che il pianeta è messo davvero maluccio. Non tanto per le molte specie che rischiano l'estinzione (il 50% nei prossimi 100 anni, andando avanti così), dato che nei 4 miliardi e mezzo di vita di questa enorme (quasi) sfera di roccia e acqua sono avvenute già 5 estinzioni di massa. Piuttosto perché la sesta sarà - è già - per mano dell'Uomo, la specie al momento dominante. Un Uomo che, a quanto pare, non meriterebbe più la U maiuscola, per quello che fa col suo agire, volontario e (apparentemente) involontario.
Molti si battono, nel proprio piccolo, "per un mondo migliore" ma poi non si dedicano a trovare "un modo migliore" di dire cose al proprio prossimo. Lavorano per la protezione dell'ambiente; si preoccupano della preghierina a tavola all'ora di cena; fanno volontariato; oppure versano denaro alle organizzazioni umanitarie ma poi ammazzano, letteralmente, il proprio vicino con una semplice, si fa per dire, domanda.
Si può fare di meglio. Partendo da noi. Sicuro. E salveremo anche qualche esemplare, della nostra o di un'altra specie.

...qual'è il senso di questo mio post? Beh... ne ho viste parecchie, diciamo. E se fossi stato provocatorio come diverse persone lo sono state con me in varie occasioni, uno dei due era finito/a in ospedale e l'altro/a in gattabuia, come si diceva una volta.
La violenza è l'ultimo rifugio dell'incompetente, diceva Isaac Asimov. Quello in cui viviamo è un mondo violento, sottilmente violento, a partire da quello che avviene dentro le mura di casa nostra (dove, appunto, non per forza deve essersi manifestato un uxoricidio) o nei rapporti con le persone a noi più vicine. Siamo quindi una manica di incompetenti. Incompetenti della Vita; della simultaneità di cause ed effetti di cui questa è permeata. E non c'è da stupirsi, quindi, se poi riduciamo questa piccola grande navicella su cui viaggiamo nello spazio a un colabrodo, spazzando via gli esseri che la abitano. Se a uno intendo aggiungere uno, il risultato che mi attende é sempre due. E' matematica.
Amare significa, in fin dei conti, sapersi - e saper - chiedere in che sorta di difficoltà si trova il nostro prossimo (fosse anche il nostro gatto o, ancor più profondamente, il ragno che fa la ragnatela sul soffitto della nostra stanza) e agire di conseguenza. E' molto semplice. C'è solo da farlo. Eppure, lo abbiamo trasformato in qualcosa di così complicato e farraginoso, infarcito da una comunicazione che è appunto intrisa di violenza alla radice: l'ombra di noi stessi.

Al giro di boa di questa Veleggiata posso affermare senza alcun dubbio, avendolo – ahimé - verificato numerose volte sulla mia pelle, che la grandissima parte delle persone, quando ti dice qualcosa in modalità giudicante, sta parlando di se.
Chi ti dice che non sei lucido, sta facendo cose fuori dalla grazie del cielo. Chi ti dice che sei distaccato, è il primo a tenersi lontano. Chi ti dice che sei pazzo, mette in atto la follia, quella vera. Chi ti dice che non ami, non si occupa di quello che dice di amare. Chi ti dice "e fattela 'na risata!" è stato fino a un momento prima col musone. E così via.
Si chiamano proiezioni. Mi verrebbe da consigliare a costoro (almeno) un corso di cartografia, o qualche seria ripetizione della materia.
Negli anni, dopo essermi dedicato intensamente alla loro costruzione, ho mollato le scotte davanti alla verità che si manifestava, e per questo motivo, molti rapporti, al grattare un po' oltre la superficie, si sono come dissolti, da un momento all'altro. Come nuvole al sole in un giorno di bonaccia. In tutte le forme: amicizie, amori, legami di parentela, rapporti professionali. Dopo aver parlato, spiegato, illustrato, motivato, discusso, urlato, sbattuto i pugni sul tavolo, dibattuto, ho scelto il silenzio.
Se urli – diceva Gandhi – ti sentono tutti; se bisbigli ti sente solo chi ti è vicino; se stai in silenzio, ti sente solo chi ti ama. ...beh, caro Mahatma, lo sai bene, la differenza è proprio tra il sentire e il saper ascoltare. Ad ogni modo, a un certo punto, il silenzio è opportuno. Per vedere chi è della partita.
Io voglio esserlo e lo sono. Sono da sempre un agonista. E, ormai, anche se fossi il solo ad Amare (me stesso per primo della lista) direi che, per cominciare a virare, senza dubbio, può bastare.

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